INDIA - Due cristiani uccisi in Orissa; chiese distrutte in Madya Pradesh e Kerala; caccia ai missionari


di Nirmala Carvalho
I corpi delle vittime sono stati tagliati a pezzi e gettati in uno stagno. Colpite alcune chiese del ‘600 e del medioevo. Suore e preti costretti a nascondere la loro identità per sfuggire alle persecuzioni e alla riconversione all’induismo. Al raduno a Vijayawada (Andhra Pradesh) si chiede al governo di mettere fuorilegge i gruppi radicali indù.


Mumbai (AsiaNews) – Non si fermano gli attacchi e le violenze contro i cristiani. In Orissa, dove da oltre 3 settimane è in atto un pogrom contro cattolici e protestanti, si registrano altre due uccisioni. Iswar Digal e Purinder Pradhan sono stati uccisi e tagliati a pezzi. Iswar Digal, del distretto di Kandhamal era del villaggio di Gatringia; è stato fermato il 20 settembre da un gruppo di estremisti indù mentre con la moglie cercava di scappare verso un campo di rifugio. La sua casa è stata incendiata. L’altra vittima era di Nilungia. Il suo corpo è stato tagliato a pezzi, messo in un sacco di juta e gettato in uno stagno.

La nuova ondata di violenze è iniziata il 23 agosto scorso proprio nel distretto di Kandhamal, dopo l’uccisione di Swami Laxamananda Saraswati, un leader radicale indù. Le organizzazioni fondamentaliste indù accusano i cristiani di averlo ucciso, anche se la polizia dell’Orissa sospetta che gli autori dell’assassinio siano militanti maoisti. Il pogrom per “uccidere tutti i cristiani e distruggere le loro istituzioni” è motivato anche dalle accuse secondo cui i cristiani spingono tribali e dalit a conversioni forzate o dietro pagamento.

Secondo stime dell’All India Christian Council, nel solo stato dell’Orissa sono stati uccisi 37 cristiani, compresi 2 pastori protestanti; bruciate oltre 4 mila case di cristiani; costretto alla fuga più di 50 mila fedeli. Di questi solo 14 mila sarebbero in campi di rifugio approntati dal governo. Altre decine di migliaia sono dispersi nella foresta.

Il primo obbiettivo dei radicali indù sono i sacerdoti, le suore e le loro famiglie. Essi vengono attaccati e speso costretti a convertirsi all’induismo. Anche nei campi la persecuzione è forte e la polizia controlla “che non vi siano conversioni”. Sacerdoti e suore presenti nei campi devono nascondere la loro identità.

Una suora presente nel campo di Raikia (distretto di Kandhamal), racconta ad AsiaNews:

“Sono qui mescolata fra i medici [per curare i feriti]. Se le autorità del campo scoprono che sono una suora mi cacciano via. Non porto l’abito dell’ordine, ma vesto con abiti civili tradizionali. Nel mio lavoro quotidiano incontro molte donne, che soffrono di traumi profondi. Ma con loro posso parlare solo di problemi medici. Non posso consolarle, consigliarle: le autorità vigilano che non vi siano discorsi religiosi.

Sono in questo campo da 10 giorni e ancora oggi, con tutta la disperazione e il dolore che incontro non posso fare a meno di piangere. Mai nella mia vita ho visto cose simili.

Ho lavorato fra i sopravvissuti dello tsunami, in zone colpite da terremoti e cicloni, ma nulla era così orribile come i fatti di questi giorni. Lo scopo dei radicali indù è distruggere ogni umanità; le torture e le devastazioni sono giunte a un limite oltre ogni immaginazione”.

Dall’Orissa il pogrom si è diffuso in altri stati: Chhattisghar, Madhya Pradesh, Karnataka e Kerala.

Ieri mattina la chiesa del Santo Nome di Gesù a Bangalore è stata assalita da vandali. Una statua della Madonna è stata sfigurata lanciandovi contro delle pietre. Il giorno prima, il 20 settembre, sempre a Bangalore, è stata saccheggiata la chiesa di S. Giacomo. I vandali hanno dissacrato le specie eucaristiche e danneggiato mobili e panche. Un’altra chiesa a Siddapura (distretto di Kodagu) ha subito danni alle finestre.

In Kerala, due chiese fra le più antiche dell’India sono state vandalizzate. Ieri, una statua del Cristo della chiesa di Protasio e Gervasio (XVII secolo) è stata rotta e gettata giù dal piedistallo. La chiesa appartiene al rito siro-malabarico. Anche la vicina cattedrale dei Giacobiti, la Mar Sabore Afroth Church ha subito danni: le finestre sono state rotte e alcune reliquie di S. Paulos Mar Athanasius distrutte. La chiesa dei Giacobiti è stata edificata nell’825.

Il 20 settembre scorso a Vijayawada (Andhra Pradesh) l’All India Christian Council (Aicc) ha tenuto un raduno per condannare le violenze contro i cristiani . Vi hanno partecipato più di 15 mila persone di diverse fedi: cristiani, musulmani, buddisti, sikh e anche indù moderati.

Sam Paul, dell’Aicc ha criticato il governo centrale per la sua incapacità a fermare gli attacchi e ha chiesto il bando di tutte le organizzazioni radicali indù, quali il Vishwa Hindu Parishad (Vhp), l’Rss (Rashtriya Swayamsevak Sangh), Il Bajrang Dal ed altri compresi nell’associazione Sangh Parivar.

Tute queste organizzazioni estremiste hanno come punto di riferimento politico il Bjp (Bharatiya Janata Party). Alcuni esperti fanno notare che questa nuova ondata di violenze è cominciata dopo l’incontro nazionale del Bjp a Bangalore, che doveva servire a tracciare la strategia per le prossime elezioni nazionali, che si terranno nel marzo prossimo.

INDIA - prete cattolico ucciso nella diocesi di Meerut (Agra)



di Nirmala Carvalho
Il religioso viveva in un ashram secondo il modello degli asceti indiani, predicando la pace e promuovendo il dialogo interreligioso. Ancora ignote le cause del gesto, la polizia non esclude l’ipotesi di rapina conclusasi in maniera tragica. Le esequie domani mattina alle 11.


Mumbai (AsiaNews) – In India è stato assassinato un altro prete cattolico: p. Samuel Francis (nella foto), meglio noto come Swami Astheya (il cui significato è “persona scevra da avarizia”), è stato ritrovato questa mattina nella cappella dell’ashram in cui viveva, nel villaggio di Chota Rampur.

Il cadavere presentava mani legate dietro la schiena, la bocca imbavagliata da uno straccio e con ferite sulla fronte. Egli aveva circa 50 anni ed era solito indossare abiti caratteristici della tradizione indiana Sanyasin (i monaci induisti che praticano una vita ascetica); viveva in un ashram (un monastero), insegnando yoga e meditazione. Chota Rampur, villaggio che il prete cattolico aveva eletto a suo rifugio, si trova a 27 km da Dehradun, appartiene alla diocesi di Meerut - una suffraganea dell'arcidiocesi di Agra - ed è distante circa 400 km da New Delhi. Non sono ancora chiare le dinamiche dell’assassinio e il movente: la polizia non esclude possa trattarsi di un tentativo di furto conclusosi in maniera tragica, visto che l’ashram è stato saccheggiato dagli assassini prima della fuga. Insieme al prete è stato ritrovato anche il cadavere di una donna, affetta parzialmente da disturbi psichici, uccisa nel magazzino dell'ashram.

P. Davis Varayilan, professore al Samanvayan Theological College, riferisce di conoscere bene il prete ucciso e ne elogia la “generosità”, il buon cuore e l’intelligenza: “È l’ennesima tragedia per la Chiesa indiana – confessa ad AsiaNews. Spesso mandavamo i nostri seminaristi a vivere per un po' nel suo ashram; agli inizia degli anni ’80 era il responsabile per la pastorale giovanile della diocesi di Meerut”. La sua abitazione è divenuta nel tempo anche il centro privilegiato per il dialogo interreligioso, per la promozione dell’armonia e dell’unità fra le persone. “Era una persona amata e rispettata da tutti: indù, musulmani, Sikh Jains, dai poveri e dagli emarginati”.

P. Francis rappresentava in pieno lo spirito indiano, la sua cultura, il modello di vita che si rifaceva allo stile “sanyasi”, e che prevede anche l’astensione dalle carni secondo un rigido stile vegetariano. “Uccidere in questo modo brutale un uomo che ha lavorato per lo sviluppo della società – conclude p. Davis – è un crimine contro l’umanità”. .

I funerali di Swami Astheya si teranno domani mattina alle 11 ora locale nel villaggio di Chota Rampur.

VIETNAM - Sotto lo sguardo della polizia, picchiatori assaltano i cattolici di Thai Ha

di J.B. An Dang
Una squadraccia in azione, mentre 500 agenti stanno a guardare: saccheggi, distrutto l’altare delle messe all’aperto, oltraggiato una statua della Madonna. Le autorità di Hanoi fanno circondare l’arcivescovado e minacciano di “punire severamente” l’arcivescovo: tra le sue colpe, aver chiesto di esercitare i diritti che la legge gli riconosce.


Hanoi (AsiaNews) – Squadracce in azione stanotte ad Hanoi: minacce a chi stava pregando, una cappella distrutta, una statua della Madonna oltraggiata con un lancio di olio di macchina. E’ il bilancio del raid che un centinaio di picchiatori, presenti 500 agenti di polizia, ha compiuto contro i fedeli della parrocchia di Thai Ha, raccolti per una veglia di preghiera. L’accaduto è la replica di quanto era avvenuto venerdì notte, quando un gruppo di picchiatori, sempre alla presenza della polizia, ha attaccato i fedeli, saccheggiato la cappella di San Gerardo e l’altare usato per celebrare messe all’aperto, distrutto statue ed immagini. “Gli assalitori – raccontano i Redentoristi – gridavano slogan e chiedevano l’uccisione dell’arcivescovo e del superiore di Thai Ha, padre Matthew Vu Khoi Phung”.

Ieri, domenica, intanto il capo del Comitato del popolo (municipio) di Hanoi, Nguyen The Thao, ha minacciato di “punire severamente” l’arcivescovo di Hanoi, mons. Joseph Ngo Quang Kiet, e quanti, insieme con lui, “sobillano la popolazione, lanciano false accuse al governo, si fanno beffe della legge e disgregano la nazione”. A far infuriare particolarmente Thai la lettera di protesta che l’arcivescovo ha indirizzato al presidente della Repubblica Nguyen Minh Triet, al primo ministro ed al capo della Commissione per gli affari religiosi, nella quale “accusava falsamente il governo” della città di violare la legge e “sfidava” lo Stato con affermazioni come “abbiamo il diritto di usare tutte le nostre capacità per proteggere la nostra proprietà”. Ed inoltre “ha fatto usare un altoparlante per leggerle”.

Le autorità di Hanoi hanno dunque deciso di usare la violenza per porre fine alle pacifiche manifestazioni con le quali i cattolici chiedevano la restituzione di due terreni di loro proprietà che sostengono essere stati illegalmente sottratti: il complesso che ospitava la nunziatura, vicino alla cattedrale di San Giuseppe, ed il terreno della parrocchia di Thai Ha e del monastero dei Redentoristi.

In un Paese nel quale il governo continua a promuovere leggi e campagne contro la corruzione, le autorità di Hanoi avevano destinato i terreni requisiti “per pubblica utilità” ad un ristorante (la ex nunziatura) e ad una fabbrica di confezioni (Thai Ha). Alla richiesta di giustizia, il Comitato popolare ha risposto con una campagna di disinformazione, minacce, arresti, ed ora violenze. Ancora ieri, l’agenzia ufficiale VNA riportava un’affermazione di Thao, secondo il quale le rivendicazioni della Chiesa per Thai Ha sono “infondate” in quanto è la Chiesa stessa ad aver donato il terreno. Affermazione già smentita dai Redentoristi che hanno tutti i documenti di proprietà e hanno chiesto (invano) al Comitato popolare di mostrare quelli della “donazione”.

La reazione dei cattolici all’uso che si vuol fare dei loro terreni è stata pacifica, ma si è concretizzata nelle più grandi manifestazioni di protesta mai viste nella capitale da quando, nel 1954, i comunisti vi hanno preso il potere. La vicenda, inoltre, ha superato i confini di Hanoi, con una decina di vescovi del nord del Paese che si sono recati nella capitale per esprimere solidarietà. Ancora ieri, mons. Joseph Dang Duc Ngan di Lang Son e centinaia di sacerdoti di Ha Nam, Ha Tay e Nam Dinh hanno guidato una marcia di migliaia di cattolici (nella foto) verso i cancelli della ex nunziatura.

Vicino non sono riusciti ad arrivare. Da venerdì la polizia ha circondato il complesso, e chiuso con le transenne anche gli accessi alla cattedrale e all’arcivescovado. Un vero stato d’assedio, con agenti in tenuta antisommossa, cani e attrezzature per disturbare le comunicazioni telefoniche.

All’interno, da venerdì, stanno demolendo il complesso della ex nunziatura. Che ora, ha annunciato il Comitato popolare, diventerà un parco pubblico con biblioteca. Eppure il 2 febbraio l’arcivescovo di Hanoi aveva annunciato la promessa del governo di restituire alla Chiesa il complesso ed il 27 febbraio, pur non facendo cenno del precedente impegno, Trân Dinh Phung, membro permanente del Fronte patriottico ed incaricato degli Affari religiosi ed etnici, esprimendo il punto di vista del primo ministro sulla vicenda aveva definito “del tutto legittima” la richiesta della Chiesa di poter utilizzare il complesso per le attività della Conferenza episcopale.

Oggi, infine, un appello urgente per la difesa dei diritti umani e religiosi dei cattolici vietnamiti è stato lanciato dalla Federation of Vietnamese Catholic Mass Media, che raccoglie varie testate religiose fuori dal Vietnam.

Ad Hanoi, le campane della cattedrale continuano a chiedere aiuto.

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