Dite a Renzo che sono felice
Splendido pezzo, splendida storia
Vita quotidiana delle persone in stato vegetativo al Don Orione di Bergamo
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Tratto da Il Foglio del 13 gennaio 2010
Dite a Renzo che io sono felice”. Renzo è un nome di fantasia, però questa non è la scena madre di un romanzo, è un commovente frammento di realtà. E la realtà, quando è così intima, va protetta e avvolta almeno in quello che resta del pudore al tempo delle leggi sulla privacy. Renzo e la moglie, che gli ha mandato a dire la sua felicità, non hanno bisogno di un separé dietro cui nascondersi, ma di un luogo in cui chiedere e ricevere attenzione e rispetto. Perché lei, che chiameremo Lucia, gli ha fatto sapere della sua capacità di amare e di essere felice pur trovandosi in un letto, in quella condizione che oggi la medicina chiama “stato vegetativo”.
Detto più brutalmente, ma con meno imprecisione di quanto si potrebbe immaginare, Lucia è una delle ventiquattro Eluana Englaro di cui attualmente si occupa il dottor Giambattista Guizzetti al Centro Don Orione di Bergamo. Qui, dal 1996, è attivo un reparto che accoglie malati in stato vegetativo, stato di minima responsività e locked in syndrome. Qui, Eluana Englaro sarebbe stata magari compagna di stanza di Lucia, appena uscita da quel letargo che la medicina ha esplorato solo in minima parte. Sarebbe stata curata, rispettata e amata come tutti gli altri pazienti. Su questo, il dottor Guizzetti è chiaro. “Qui i malati come Eluana trovano posto e assistenza. Il suo caso non era più grave di altri che assistiamo. Abbiamo malati immobilizzati in un letto e apparentemente inconsapevoli di ciò che li circonda e malati in grado di stare su una sedia a rotelle, di seguire un discorso e farsi intendere. Abbiamo persino avuto pazienti che sono migliorati al punto tale da poter tornare a casa”.
Tutto ciò Guizzetti lo spiega per venire incontro allo stupore di chi, quando si parla di stato vegetativo, immagina corpi tenuti in vita artificialmente e poi, con sorpresa, scopre persone vive, in cui il soffio vitale, l’anima, continua testardamente a dare forma al corpo. Perché è proprio questo che colpisce chiunque entri per la prima volta in questo reparto del Don Orione. E Guizzetti, che alterna linguaggio e gesti professionali alla ruvidità di un cattolicesimo bergamasco sopravvissuto alla burocrazia invadente dei piani pastorali, è lì ad aspettare la constatazione che, puntualmente, si disegna sulla faccia dell’interlocutore: niente macchinari, persone che spesso riescono a muoversi, guardano, ascoltano o che, se pure mostrano di non guardare o di non ascoltare, vivono senza l’aiuto di alcunché di artificiale. Testimoni di un attaccamento così radicale tra anima e corpo da mostrare che alla vita umana esiste una sola alternativa: la morte. Un attaccamento così intimo da rendere palpabile che alla vita umana non si contrappone alcuna sua gradazione, alcuna “zona grigia”. Dopo aver fatto il giro del reparto accompagnati da Guizzetti, dopo aver visto i suoi pazienti, i loro familiari, il personale che li assiste, si comprende che, anche nelle circostanze più dolorose della vita, ci si può trovare davanti solo a un uomo o a un cadavere: tertium non datur. Una verità tanto più palpabile davanti al letto di ognuno dei pazienti del Don Orione di Bergamo: quelli capaci di relazioni evidenti come quelli raccolti in un silenzio indecifrabile.
A causa della confusione terminologica in materia, nel 1994 la “Multi- Society Task Force” sullo stato vegetativo persistente ha definito i criteri necessari per diagnosticarlo. Una sequela di definizioni in fondo alla quale rimane sempre la sagacia del medico a decidere. “E in ogni caso – spiega Guizzetti – la questione dello stato di coscienza, intesa come consapevolezza di sé e come capacità di sperimentare sensazioni, è molto controversa, in quanto solleva questioni etiche di grave importanza. Tutti i ragionamenti che si fanno attorno a questi malati, e in particolare quello che vorrebbe riconosciuta la liceità morale della sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione, si basano su due affermazioni non dimostrate: che in nessun momento questi pazienti sono consapevoli di sé e dell’ambiente, e che mai sono in grado di provare dolore o sofferenza”.
Ed è qui che racconta la storia di Lucia. Una campionessa di ciclismo ricoverata dopo una caduta. Ospedale, coma, poi stato vegetativo e, dunque, dimissione da un luogo non attrezzato per assisterla e curarla. “Per capire fino in fondo quella dichiarazione di felicità – spiega il medico – bisogna raccontare un antefatto. Durante una delle periodiche riunioni con i familiari, una giovane volontaria si è alzata e ha fatto un discorso molto bello, ma sicuramente molto difficile da accettare, parlando del desiderio di felicità che permane nel cuore di questi malati. Aveva sorpreso persino me. Tanto che quando alcuni rappresentanti del personale sono venuti a dirmi che si trattava di un discorso senza senso sbattuto in faccia a gente che soffre ho dovuto rifletterci un bel po’. Poi, durante la settimana, abbiamo accompagnato Lucia in un ospedale di Brescia per tentare una cura che avrebbe contribuito a rilassare la sua muscolatura dandole sollievo. E lì è accaduto il fatto. Inaspettatamente, Lucia ha ripreso a parlare. E, ancora più inaspettatamente, ha dato ragione a quella ragazza che molti avevano scambiato per una pazza insensibile alle ragioni dei malati e dei loro familiari”.
“Dite a Renzo che io sono felice”. Che non significa negare il dolore, ma avergli trovato un posto nella propria esistenza e chiedere che trovi un posto anche in quella dei propri cari. E, a ben guardare, è molto più duro, più faticoso, più doloroso sulla bocca di Lucia che su quello della giovane volontaria: come lo è sempre la messa in pratica di una teoria rispetto alla sua enunciazione.
Se poi ci si avvicina a Lucia, se la si vede sofferente – mentre i suoi familiari spiegano: “Questa mattina era allegra, faceva un sacco di battute, adesso è stanca…” – si comprende quanto sia eroico e insieme umanissimo quel: “Dite a Renzo che io sono felice”. E si tocca con mano quanto sia straordinario quel composto di anima e corpo e che è l’uomo. Dove l’anima, intimamente legata alla materia di cui è forma, contemporaneamente ne è indipendente e non risente delle sue condizioni. Sempre presente a se stessa, intimità tanto con un corpo in perfetta efficienza, quanto in quello di una Eluana Englaro o in quello di un nonno che dimentica il proprio nome e non riesce a maneggiare il telefonino.
Eppure, il pensiero moderno si è dato il compito di separare anima e corpo, ha fatto della creatura umana un angelo o una bestia, ma non un uomo. Ed è chiaro che, quando anima e corpo non sono più legati, se ne può fare quello che si vuole. Ma se l’anima è imprendibile, il corpo può essere imprigionato in qualsiasi lager: quelli in cui viene segregato, torturato, ucciso, e quelli in cui viene manipolato, abortito, eutanasizzato.
In questo reparto della bella periferia bergamasca che guarda verso le colline della Maresana, il dottor Guizzetti si occupa dei corpi proprio perché sa che non possono sussistere senza l’anima. Non è un laico che fa onestamente il medico, ma un medico che fa onestamente il cattolico. Per questo non si pone obiettivi standard in base ai quali decidere della sorte di un suo simile, ma fa tutto quanto gli è possibile come medico e come credente perché i suoi malati stiano ogni giorno il meglio possibile. “Nel malato in stato vegetativo – dice – raramente si può ottenere la guarigione. E sappiamo bene che, col passare del tempo, un tale esito diventa sempre più improbabile. Nonostante questo, utilizzando i mezzi ordinari a nostra disposizione, cerchiamo di alleviare la sofferenza e migliorare la qualità della vita. Non si può sempre guarire, evento raro in queste situazioni, ma sempre si può ‘prendersi cura’. Io penso che questo il medico lo possa fare al meglio quando abbia risolto e chiarito a se stesso il significato del suo essere mortale, della sua finitezza. Quando un uomo comprende di essere una canna che si può spezzare in ogni momento, comprende pure che, davanti a un malato, non può mai dire: non c’è più niente da fare. Non c’è mai un momento nell’assistenza ad un essere umano in stato vegetativo in cui possiamo dire: basta adesso possiamo fermarci. Si tratta semplicemente di trovare la cosa giusta da fare. L’etica del prendersi cura si traduce nella ricerca e nell’applicazione delle cose giuste, continuando a stare vicino al paziente senza cadere nell’errore dell’accanimento o dell’abbandono terapeutico”.
E che cosa impara un uomo che vive ogni giorno a fianco di suoi simili in queste condizioni? “Vivendo qui – risponde Guizzetti – ho compiuto una scoperta straordinaria. Mi sono reso conto che se io ho sete posso alzarmi e bere un bicchiere d’acqua, se ho caldo posso farmi aria con un foglio di carta, se ho fame posso andare in cucina a prendermi un panino. Io lo posso fare e questi malati no. Questa banalissima constatazione mi ha fatto capire quanto gusto abbiano un bicchiere d’acqua, un poco d’aria, un pezzo di pane. Diventano regali meravigliosi se penso che potrei non averli più o che avrei potuto non averli mai. Ho dovuto trovarmi davanti a questi malati per capire di essere una creatura a cui è stato donato tutto, anche il frammento più piccolo di ciò che ha e di ciò che è”.
Eccolo il centuplo promesso già su questa terra a chi lascia tutto in nome del Signore. Non consiste nella moltiplicazione degli averi, ma nella moltiplicazione del gusto per ciò che si è disposti ad abbandonare e si ritrova. Tutto diventa straordinario, se si pensa che avrebbe potuto non esserci, così come è straordinario tutto ciò che si salva da un naufragio. E le creature sono proprio questo, degli esseri salvati dal naufragio del nulla. Se solo capissero questo, se solo non si incaponissero nell’idea di essere i facitori di se stessi, se solo si abbandonassero all’idea di non poter disporre del proprio essere rimettendolo nelle mani di chi lo ha tratto dal niente, sarebbero in grado di gustare la propria vita per il centuplo.
“Dite a Renzo che io sono felice”: sette parole che riassumono il senso di ogni esistenza, anche di coloro che non hanno neppure un raffreddore. E lì, a raccoglierle ci può essere chiunque, tanto un medico come Guizzetti, quanto qualcuno che non ne comprende il senso. In ogni caso, sono dette: “Dite a Renzo che io sono felice”. Sette parole che hanno avuto la possibilità di essere pronunciate solo perché qualcuno si è chinato su un corpo apparentemente inanimato e lo ha curato.
Bisogna passare almeno qualche ora, magari come volontario, qui ai piedi dei colli bergamaschi della Maresana. Può fare solo bene, specialmente ai giovani, che per loro ardimentosa natura sono portati ad ammirare il fisico eccezionale che stabilisce il primato mondiale dei cento metri piani piuttosto che ad accarezzare quello del compagno di classe ridotto su una sedia a rotelle. Ma farà sicuramente bene anche agli adulti di ogni età. Oltre a essere un meritorio atto di carità, una visita a luoghi e persone come questi può indurre pensieri cha aiutano a mutare il proprio orizzonte.
Qui, per esempio, si può intuire quanto sia vero che, per amare completamente Dio, un’anima ha bisogno di tutto l’aiuto del corpo di cui è forma. Ma, quel corpo, come insegna san Bernardo di Chiaravalle, deve essere privo di angustie, deve avere trovato anch’esso compimento nella gloria. Davanti al lavoro quotidiano di medici, infermieri e volontari del Don Orione diviene evidente che la cura di un corpo malato, in qualche modo, è la figurazione di quanto ci è necessario per la vera beatitudine: la pacificazione amorosa di un corpo e dell’anima che lo abita.
Ma tutto questo, si obietterà, è mistica, è qualcosa che ha poco a che fare con la vita dei poveri mortali. E’ vero, è la descrizione del quarto grado dell’amore, quello supremo, che san Bernardo racconta nel “De diligendo Deo”. E’ mistica, ma proprio per questo è qualcosa di molto concreto e riguarda tutti.
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