Dal prof. Carlo Bellieni - Il bebè guarito dall'HIV

 

Carlo Bellieni

Avere l'AIDS è una tragedia, sentirsi responsabili di trasmetterlo al proprio figlio raddoppia la sofferenza. Aver forse trovato come curare i neonati ad alto rischio di AIDS è invece una vittoria di tutti, e questo sembra essersi realizzato in questi giorni in un ospedale del Mississipi: un bambino ad altissimo rischio di infezione da HIV è risultato completamente guarito dopo un trattamento precocissimo ed intensivo con farmaci detti "antiretrovirali". Finora esistevano cure ma che non avevano raggiunto questo livello di successo, certamente ancora tutto da verificare per non creare poi tristi disillusioni, ma ben augurante; successo simile a quanto era risultato dall'uso di cellule staminali adulte che avevano avuto di recente successo in Germania curando un adulto sieropositivo.

Oggi l'infezione da HIV è una pandemia  e il binomio AIDS e gravidanza genera non solo dolore ma anche scelte negative: circa un settimo dei feti a rischio di nascere contagiati dall'AIDS vengono abortiti, secondo un recente studio italiano, e le donne sieropositive sono in certi contesti addirittura costrette alla sterilizzazione forzata (Reproductive Health Matters, 2012). Oggi possiamo forse uscire da questo quadro di terrore, eppure promettenti ricerche come quella che ha portato al successo sopracitato rischiano di non essere supportate da fondi sufficienti. Proprio il National Institute for Health, che ha finanziato lo studio che ha curato il bambino dall'AIDS, rischia in questi giorni di perdere 1,6 miliardi di dollari di budget. Lo stesso dicasi per le malattie rare, per le quali non esiste ancora una terapia risolutiva e per questo sono chiamate "malattie orfane": sono migliaia, ma la rarità delle singole patologie fa sì che esse siano trascurate dai principali investimenti pubblici e privati, come riporta la fondazione Telethon. E' ovvio allora che i criteri di supporto alla ricerca dovrebbero essere rivisti e portati più a contatto con le necessità delle parti deboli: anche la rivista Lancet nel 2009 riportava che la sovvenzione pubblica alle ricerche scientifiche è scarsamente correlata con il peso sui pazienti delle malattie studiate nelle ricerche che vengono finanziate.

Carenze nei fondi per la ricerca, ma anche per la cura: malaria, tubercolosi e tante altre malattie dilagano nei Paesi emergenti ancora in attesa di interventi radicali, mentre in Europa abbiamo assistito a tagli nella spesa pubblica che sono andati a colpire l'assistenza alle persone con malattie croniche.

Ma dai massmedia la complessità di questo problema non emerge e vengono chiesti con soffocante insistenza fondi e strutture solo per la ricerca su campi etici che fanno discutere – anche se non hanno ancora portato risultati – ma che sono di moda: primi su tutti gli studi sugli embrioni umani. E a leggere certi giornali, sembrerebbe che gli interessi della gente debbano focalizzarsi non sulla cura delle grandi patologie, ma sulla medicina estetica, sui vari tipi di fecondazione medica, di selezione embrionaria, e sulla ricerca esasperata di nuovi sistemi di selezione genetica prenatale, tante sono le pagine che dedicano a questi temi.

successi nella cura dell'AIDS – malattia oggi diffusa soprattutto nelle popolazioni povere - ci portano allora a puntare il dito sulle priorità; fino agli anni '90 una donna sieropositiva aveva il 30% di possibilità di passare la malattia al figlio e oggi i trattamenti preventivi hanno ridotto questo rischio al 2% ma i farmaci necessari sono a portata di tutti, soprattutto nei Paesi emergenti? Oppure prevalgono altre scelte? Ed è sufficiente l'attuale livello della ricerca scientifica per le malattie diffuse soprattutto tra la fetta di popolazione che ha meno voce? Oggi più che mai serve distinguere cosa realmente è il diritto alla salute: per allocare i fondi, i governi devono scegliere se considerare questo diritto solo come la soddisfazione dei desideri dettata dalle leggi del mercato,  o come  il sostegno sociale alle situazioni più difficili e alle persone più deboli

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