L'Editore Cantagalli sull'Unità d'Italia (finalmente qualcuno fuori dal coro!)

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N°39 del 23 febbraio 2011



L'Italia delle polemiche: 150 anni tra dibattiti e controversie
Newsletter a cura di Mariavera Speciale


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L'unità d'Italia, centocinquant'anni 1861-2011Giacomo BiffiL'unità d'Italia, centocinquant'anni 1861-2011. Contributo di un italiano cardinale a una rievocazione multiforme e problematica

Nella variegata moltitudine degli interventi dedicati alla celebrazione di questo importante anniversario, quella del cardinal Biffi è una voce controcorrente che aggiunge un po' di pepe al dibattito sulla storia e sul futuro del nostro paese.
La provocazione lanciata dal cardinale è che se lo Stato italiano, in quanto realtà politica, fino al 1861 non esisteva ancora, lo "spirito della nazione" era innegabilmente riconoscibile: "agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli", universalmente ammirati per la loro creatività e il loro genio. Nell'arte come nella musica, nell'architettura e in poesia, i modelli italiani venivano osservati con meraviglia, innalzati a esempio di perfezione e bellezza suprema, mentre scienziati, inventori e ingegnosi ricercatori italiani offrivano notevoli contributi alla storia del progresso.
Allora lo si chiamò Risorgimento, ma da che cosa effettivamente dovevamo "risorgere"? Il '700 italiano, a ben vedere, non è stato quel periodo di squallore e desolazione che la parola evocava. Certo l'unità politica ha portato i suoi innegabili vantaggi, ma la frammentazione, a detta del cardinale, non era un fenomeno del tutto negativo in quanto "corrispondeva a un certo genio del nostro popolo". Quali grandi prove di eccellenza hanno dato, invece, gli italiani all'indomani della fatidica data? Le genti italiche finalmente unite sotto l'unico vessillo tricolore, sembrano perdere "un certo smalto" e quell'originalità di pensiero che l'aveva caratterizzate nei secoli precedenti.
Rimane poi il dubbio se il percorso verso lo Stato unitario fu vera rivolta di popolo, e vera unificazione, o piuttosto una conquista piemontese che si limitò, incautamente e precipitosamente, a sottomettere al suo dominio economie, storie e condizioni talmente diverse tra loro da far sì che ancora oggi ne siano evidenti i drammatici frutti. I padri della nazione, legati soltanto dall'evidenza "che nessuno di loro poteva soffrire gli altri tre", non si curarono troppo di dare al popolo la sensazione che si trattasse davvero di un nuovo inizio (per salvare la forma sarebbe bastato che il re d'Italia si imponesse il nome di Vittorio I, ad esempio), né ebbero la saggezza di interpretare come una risorsa le particolarità regionali immaginando una qualche forma di Stato federale.
Ma l'errore più grave commesso da chi si impegnò a costruire l'Italia politica, secondo il cardinale fu quello di ignorare, o meglio, combattere aspramente, l'unico vero collante dello spirito italico: la fede cattolica.
Comunque la si pensi, se gli italiani trovano difficile identificarsi con fierezza nella loro nazione è anche perché, agli albori dell'unità statuale, poco è stato fatto per metterne in risalto la specificità, trasformando così la terra di Dante, Michelangelo e Vivaldi in un "regno di secondo ordine" tutto proteso a riproporre versioni sbiadite di modelli politici e culturali altrui. E di questa "poca lungimiranza" è figlia forse anche una certa esterofilia aprioristica che domina il pensiero comune contemporaneo e non incoraggia certo un dibattito sereno e costruttivo sulla nostra identità.
Solo una cosa forse il cardinal Biffi ha omesso di citare tra ciò che veramente unisce gli italiani di ogni regione e a qualunque latitudine, un segno distintivo del carattere italico odierno: il piacere di polemizzare e discutere su qualunque argomento, anche senza averne le competenze. Anche senza, ad esempio, avere mai letto (o per lo meno sfogliato) un libro di cui si parla.


DAL CAPITOLO III "QUALE RISURREZIONE?": "Credo sia innegabile che alla fine del secolo XVIII le condizioni sociali, politiche, economiche della penisola postulassero qualche trasformazione non superficiale, e qualche rinnovamento fosse auspicabile e necessario.
E va riconosciuto che quanto è avvenuto ha provocato un mutamento profondo nelle strutture pubbliche, nella legislazione, nella vita associata, che oggettivamente va giudicato benefico.
Sotto questo profilo il Risorgimento non può ricevere, entro la lunga storia d'Italia, una valutazione negativa. Ma nella sua denominazione, oltre che nella storiografia più diffusa e, conseguentemente, nella retorica divulgata, si tende a lasciar credere che si sia trattato di una rinascita totalizzante: un passaggio degli italiani dalle tenebre alla luce, se non proprio dalla morte alla vita. Prima del 1860 - si ama supporre - tutto è degenerazione e squallore; dopo il 1860 tutto riprende a fiorire: il termine stesso "risorgimento" insinua o suppone proprio questa amplificazione che invece chiederebbe, a nostro parere, di essere attentamente verificata. Senza disconoscere che in campo politico, sociale e anche economico (almeno per alcune regioni settentrionali) si siano dati effettivi progressi, vorremmo domandarci se si possa anche parlare - in che senso, con quale legittimità e con quale ampiezza - di un "risorgimento&#1 48; culturale, morale e spirituale del nostro popolo, tale da avvantaggiarlo nella stima delle nazioni"
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1861-2011: A centocinquant'anni dall'Unità d'Italia. Quale identità?1861-2011: A centocinquant'anni dall'Unità d'Italia. Quale identita?
A cura di Francesco Pappalardo e Oscar Sanguineti

A centocinquant'anni dalla sua unificazione, l'Italia porta ancora il pesante fardello lasciatoci in eredità dall'epopea Risorgimentale (la "questione cattolica", la "questione istituzionale" e l'irrisolta "questione meridionale"), che spesso la successiva mitizzazione nazionalista ha voluto negare o ignorare del tutto.
La riscoperta dell'identità italiana, invece, passa proprio per un'analisi storica libera da tutte le ideologie, che riconosca le radici profonde di un Paese la cui storia inizia molto prima del 1861.
Rileggendo le pagine del Risorgimento sembra che il disegno dei padri della Nazione fosse "fare l'Italia contro gli italiani", non solo rifiutando ogni forma di federalismo sia politico che sociale (necessario in una realtà così variegata) ma soprattutto decostruendo "il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo" in favore di "un ethos nuovo, progettato a tavolino, modellato sulle presunte caratteristiche delle più avanzate nazioni protestanti europee". L'ethos nazionale italiano di fronte alla modernità mantiene invece, proprio in virtù del suo radicamento nel cattolicesimo, tre elementi che lo distinguono da qualunque altro esprit collettivo: il realismo, la libertà dall'esito e l'universalismo. Nessuna utopica ricerca di una perfezione inarrivabile, ma semplice tensione verso il "meglio possibile", nessuna paura della predestinazione, ma valorizzazione dell'impegno a presc indere dall'esito, e infine, ma non da meno, una apertura all'universale, a una totalità costituita da molte differenze da valorizzare e accogliere. Certo il realismo degli italiani diventa spesso anche scetticismo frenante davanti ai grandi progetti, la libertà dall'esito fatalismo e apatia, e lo stesso universalismo può degenerare in atteggiamenti remissivi e in uno spirito di compromesso a tutti i costi. Questo però non basta a negare lo spirito di un popolo, semmai può diventare il punto di partenza per cercare di stimolarne gli aspetti migliori.
L'idea di unità politica dell'Italia era stata sostenuta da diverse correnti di pensiero che ne intravedevano senza difficoltà i vantaggi e i benefici, ma la forma che assunse, lo stato centralista, non teneva conto della ricchezza rappresentata dalle differenze dell'Italia preunitaria.
Per imporre all'Italia questa nuova veste bisognava stravolgere anche l'ethos del suo popolo, negare la storia e le tradizioni concrete per sostituirle con un modello astratto e utopistico. Lo sforzo "di vestire tutti gli italiani con lo stesso abito di legno" finì però col distruggere tradizioni, culture "e anche economie che - come quella del Regno delle Due Sicilie […] - non erano affatto in rovina prima del 1860". Dopo il Risorgimento così si alimenta il pregiudizio che attribuisce all'ethos cattolico l'arretratezza economica dell'Italia e del Meridione, e si cerca di rimpiazzare l'antico spirito della nazione con altre forme ispirate alle realtà politiche d'oltreconfine, che però non riusciranno mai ad attecchire veramente nell'animo del nostro popolo.
Per "risorgere" pienamente oggi, l'Italia ha bisogno di riscoprire le sue radici e la sua identità, senza pregiudizi né complessi. Scrive nell'introduzione Massimo Introvigne: "[…] la fedeltà all'ethos nazionale - che come ogni tradizione ha bisogno di essere continuamente rimeditata e aggiornata alle esigenze dell'ora presente - è una bussola che può sempre indicare la via, e tenere unita l'Italia in momenti storici particolarmente difficili. Purché non ci si vergogni delle proprie radici, e non si abbia timore di riaffermare la verità secondo cui non si può neppure cominciare a percepire e formulare l'ethos nazionale italiano prescindendo dalla fede cattolica".


DAL SAGGIO DI OSCAR SANGUINETI "RISORGIMENTO E STORIOGRAFIA NON-CONFORMISTA": "Il Risorgimento è uno dei nodi principali - se non il nodo per antonomasia - della storia italiana contemporanea. Momento di svolta e mutamento radicale del modello politico del Paesi, autentico cambio di paradigma della cultura nazionale, è stato oggetto obbligato della ricostruz ione e della riflessione di ognuno dei differenti soggetti culturali e politici, individuali e collettivi - non escluse le numerose generazioni di cittadini a ondate successive ammaestrate al suo culto - che si sono affacciati e avvicendati alla ribalta della vita nazionale dal 1861 ad oggi.
Coerentemente con il carattere di scontro civile e di culture che in ultima analisi il Risorgimento italiano ha assunto e trasmesso come impronta all'Italia contemporanea, questa elaborazione non è mai sfociata in una lettura autenticamente comune e condivisa, o almeno riconosciuta sulle sue grandi linee, ma al contrario si è divisa, se non frammentata, in interpretazioni diverse e spesso contrastanti, quando non antitetiche.
Non tutte le letture però hanno avuto la medesima sorte. […] Dal momento che la versione "canonica" degli eventi del processo risorgimentale era stata eretta a mito fondatore del nuovo Stato nazionale unitario […] violare questo cliché, uscire dall'imperante agiografia, semplicistica o raffinata che fosse, significava essere guardati con sospetto, quasi come potenziali eversori o traditori della patria […]"
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