Molte donne tra i 188 beati giapponesi - Senza di loro la Chiesa giapponese non esisterebbe
GEROLAMO FAZZINI
Che cos’ha da dire alla Chiesa universale la cerimonia di lunedì durante la quale, nello stadio di Na gasaki, verranno proclamati 188 nuovi beati? Quale il significato e l’attua lità di una pagina di storia cristiana di quattro secoli fa?
Non è questo il primo gruppo di martiri giapponesi ad essere proposto al la venerazione dei fedeli. Più volte so no stati elevati agli altari vittime del la persecuzione dei secoli XVI e XVII, il breve 'secolo cristiano' del Giappone, compreso fra l’arrivo del primo missionario, san Francesco Saverio (1549), e il martirio di Pietro Kibe (1639).
Stavolta, però, alcune novità significative rendono particolare l’evento alle porte. «Questa è la prima volta che non solo la cerimonia di beatificazione viene tenuta in Giappone, ma che tutti i martiri beatificati sono giapponesi», ha spiegato monsignor Takeo Okada, arcivescovo di Tokyo. E se nelle cerimonie precedenti l’iniziativa era stata degli ordini religiosi, stavolta il lavoro di preparazione può definirsi Made in Japan.
Qualcuno è arrivato a dire che nelle celebrazioni di lunedì prossimo non manca una punta di nazionalismo, un (peraltro legittimo) orgoglio non privo di sfumature campaniliste. Può essere. E tuttavia un evento quale la beatificazione di un folto gruppo di cristiani autoctoni appare un segno importante nel processo di crescita e consapevolezza di una Chiesa locale. A maggior ragione, questo è vero os servando il profilo dei candidati agli altari: la maggior parte dei martiri so no persone che vivevano vite ordi narie nelle famiglie come samurai, mercanti e artigiani. In altre parole Pietro Kibe e i suoi 187 'compagni' rappresentavano tutti gli strati sociali della società giapponese di quel tem po. Un numero consistente di essi, va poi ricordato, sono donne. E non è un fatto da poco, se anche la Con ferenza episcopale locale afferma: «Ci siamo resi conto che senza le donne la Chiesa giapponese di oggi non e sisterebbe ». Proprio questi 'cristiani ordinari' sono stati i protagonisti silenziosi della grande fioritura di fede verificatasi a cavallo del Seicento: il seme della fede cristiana, infatti, venne accolto da migliaia di persone appartenenti alla classe degli 'heimin', i cittadini comuni, al punto che nel 1619, all’alba della grande persecuzione, in Giappone si contavano ben 300 mila cattolici. Molti di essi avrebbero poi dato testimonianza del la loro fede pagando il prezzo del martirio. Con un coraggio e una se renità d’animo tali da stupire i loro stessi evangelizzatori, i missionari stranieri.
È in quella fede provata nel fuoco, in quella medesima tenacia, di una comunità di credenti risorta dalla pro va del martirio, il segreto della vita lità della Chiesa giapponese. Una Chiesa che nel 1945 – non dimenti chiamolo – fu letteralmente colpita al cuore: a Nagasaki, teatro della cele brazione di domani, la bomba ato mica in pochi secondi annientò i due terzi della fiorentissima comunità cattolica locale. Una Chiesa, quella giapponese, che – pur camminando immersa nella temperie della post modernità – continua a testimoniare il fascino di Cristo agli uomini di ogni cultura.
Ecco, allora, la preziosa lezione che il «piccolo gregge» del Giappone (mezzo milione di cattolici su una popolazione di 126 milioni) porta in dote alla comunità universale dei credenti: non c’è Chiesa, per quanto numericamente esigua, che non possa «dare della sua povertà». E an cora: il seme dei martiri non è sparso invano, presto o tardi genera nuovi cristiani.
Che cos’ha da dire alla Chiesa universale la cerimonia di lunedì durante la quale, nello stadio di Na gasaki, verranno proclamati 188 nuovi beati? Quale il significato e l’attua lità di una pagina di storia cristiana di quattro secoli fa?
Non è questo il primo gruppo di martiri giapponesi ad essere proposto al la venerazione dei fedeli. Più volte so no stati elevati agli altari vittime del la persecuzione dei secoli XVI e XVII, il breve 'secolo cristiano' del Giappone, compreso fra l’arrivo del primo missionario, san Francesco Saverio (1549), e il martirio di Pietro Kibe (1639).
Stavolta, però, alcune novità significative rendono particolare l’evento alle porte. «Questa è la prima volta che non solo la cerimonia di beatificazione viene tenuta in Giappone, ma che tutti i martiri beatificati sono giapponesi», ha spiegato monsignor Takeo Okada, arcivescovo di Tokyo. E se nelle cerimonie precedenti l’iniziativa era stata degli ordini religiosi, stavolta il lavoro di preparazione può definirsi Made in Japan.
Qualcuno è arrivato a dire che nelle celebrazioni di lunedì prossimo non manca una punta di nazionalismo, un (peraltro legittimo) orgoglio non privo di sfumature campaniliste. Può essere. E tuttavia un evento quale la beatificazione di un folto gruppo di cristiani autoctoni appare un segno importante nel processo di crescita e consapevolezza di una Chiesa locale. A maggior ragione, questo è vero os servando il profilo dei candidati agli altari: la maggior parte dei martiri so no persone che vivevano vite ordi narie nelle famiglie come samurai, mercanti e artigiani. In altre parole Pietro Kibe e i suoi 187 'compagni' rappresentavano tutti gli strati sociali della società giapponese di quel tem po. Un numero consistente di essi, va poi ricordato, sono donne. E non è un fatto da poco, se anche la Con ferenza episcopale locale afferma: «Ci siamo resi conto che senza le donne la Chiesa giapponese di oggi non e sisterebbe ». Proprio questi 'cristiani ordinari' sono stati i protagonisti silenziosi della grande fioritura di fede verificatasi a cavallo del Seicento: il seme della fede cristiana, infatti, venne accolto da migliaia di persone appartenenti alla classe degli 'heimin', i cittadini comuni, al punto che nel 1619, all’alba della grande persecuzione, in Giappone si contavano ben 300 mila cattolici. Molti di essi avrebbero poi dato testimonianza del la loro fede pagando il prezzo del martirio. Con un coraggio e una se renità d’animo tali da stupire i loro stessi evangelizzatori, i missionari stranieri.
È in quella fede provata nel fuoco, in quella medesima tenacia, di una comunità di credenti risorta dalla pro va del martirio, il segreto della vita lità della Chiesa giapponese. Una Chiesa che nel 1945 – non dimenti chiamolo – fu letteralmente colpita al cuore: a Nagasaki, teatro della cele brazione di domani, la bomba ato mica in pochi secondi annientò i due terzi della fiorentissima comunità cattolica locale. Una Chiesa, quella giapponese, che – pur camminando immersa nella temperie della post modernità – continua a testimoniare il fascino di Cristo agli uomini di ogni cultura.
Ecco, allora, la preziosa lezione che il «piccolo gregge» del Giappone (mezzo milione di cattolici su una popolazione di 126 milioni) porta in dote alla comunità universale dei credenti: non c’è Chiesa, per quanto numericamente esigua, che non possa «dare della sua povertà». E an cora: il seme dei martiri non è sparso invano, presto o tardi genera nuovi cristiani.
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